A spasso con eleganti terribili ricci

O di come imbattersi in strane e inaspettate metafore, vagando in fitti boschi di metasemantici versi dell’anima

«Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire.»

  • Muriel Barbery, L’eleganza del riccio

Perché comunichiamo? Ma soprattutto cosa e con chi decidiamo di comunicare?

È così che ho deciso, qualche giorno fa, di cominciare la mia lezione sugli elementi e le funzioni della comunicazione, letteraria e non. Con due domande. Strane.

Perché strane, in fondo? Comunicare è una cosa talmente spontanea e naturale che non ha bisogno di molte spiegazione. Forse. Forse non è così scontato però il suo significato.

I ragazzi su questo tema, ovviamente, si sono sbizzarriti. Vivendo in un mondo ipercomunicante, a volte anche faticosamente sostenibile, di pareri ne hanno molti e molto discordanti fra loro.

Per fare il punto ho deciso di lanciare un piccolo esperimento. Una presentazione con l’uso di una metafora. Descriversi attraverso l’immagine di un animale. Ecco che viene fuori la poesia dei giovani cuori:

  • Prof, io sono un riccio.
  • Un riccio, dici? Perché?
  • Perché non sento di riuscire a esprimere tutto ciò che ho dentro come vorrei e, per paura di essere fraintesa o ferita, tiro fuori una certa durezza d’animo.
  • In che senso?
  • Nel senso che uso alla fine parole che non vorrei, parole dure, lontane da ciò che vorrei esprimere.
  • Anch’io, Prof…anch’io non riesco a dire a parole quel che sento e alla fine decido di stare zitto. Meglio che dover spiegare mille volte.

Allora decido di lanciare un ulteriore esperimento, proponendo loro di inventare delle parole per descrivere uno stato d’animo in particolare, un insieme di emozioni.

  • No, Prof, su questo volevo dire una cosa. Ora io posso creare qualsiasi parola e sembrare stupido.
  • Stupido? No, non lo penserei mai.
  • No, Prof. È così. Cioè, se Dante inventa una parola, è un poeta geniale, se lo faccio io sono cretino. Tipo, se lui dice “intuarsi/inmiarsi” tutti a commuoversi, ma che bravo, che versi meravigliosi. Se io dico “finOstra”, sono un cretino.

Dopo una fragorosa risata in classe, ci penso un attimo e gli dico:

  • Sai, le parole che citi di Dante hanno un preciso significato poetico e filosofico, la tua probabilmente no …
  • Eh no, prof… anche “fiNOstra” ha un preciso significato. Significa che è la finestra di questa classe, non di altre. Vissuta e toccata da noi, e solo noi che siamo qui vediamo il mondo attraverso di essa.

Ebbene, ecco come andando a spasso con i miei piccoli ricci, scopro un universo che difficilmente si riesce a cogliere senza prestare particolare attenzione.

Abbiamo rinunciato all’incontro con l’altro, a comunicare con i ragazzi, dando probabilmente per scontato che non abbiano granché di pregnante da dire. O, semplicemente, ponendo eccessivamente l’accento sul “programma” da terminare, sui contenuti da dover trasmettere, abbiamo creato silenzi che danno spazio alla nostra sola voce.

Ma anche quei silenzi sono ricchi di senso e interpretabili in molteplici altre semantiche poetiche di interiorità inespresse, piene di significazione a più strati.

Cos’è dunque la comunicazione? Per molti è uno specchio, per altri un veicolare semplici e utilitaristiche informazioni. E lo spazio per l’altro? Lo scambio, l’incontro?

Dire è ben più semplice che ascoltare, costruire discorsi è ben poca cosa rispetto a esprimere sentimenti ed emozioni. Per cui, nessuno comunica finché non si traduce in poesia. E i ragazzi sanno ben assolvere a questo compito. Basta tirar fuori i versi del loro mondo interiore, distraendoli da quel rifugio di vuota significazione che noi adulti abbiamo creato per loro.

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